Secondo Hans Selye, “lo stress è una risposta non specifica dell’organismo ad ogni agente ambientale perturbante”. Il nostro corpo si difende dai fatti e dagli agenti vissuti come stressanti, attraverso la sindrome di adattamento che ha la funzione di proteggere il corpo delle situazioni vissute come pericolose, implica un lavoro di tipo nervoso ed endocrino, che prepara l’organismo ad una reazione di attacco o di difesa. La sindrome di adattamento si attua in alcune fasi:
- allarme (con forte stimolo surrenale e produzione di corticoidi);
- resistenza (l’organismo si organizza per resistere);
E’ importante la qualità dell’agente stressante, ma è altrettanto importante come la persona lo vive. Lo stesso agente stressante può provocare reazioni diverse a seconda della persona che lo subisce: lo stato d’animo, la fiducia in se stessi, il grado di salute ed efficienza dell’organismo, possono condizionare e mediare l’effetto stressante sull’individuo (giocatore e allenatore).
A livello infantile, è importante comprendere come lo sport per il bambino troppo spesso assuma significati che vanno al di là di ciò che è veramente l’attività sportiva. Un’eccessiva insicurezza in se stesso, condiziona fortemente il bambino davanti alla gara.Il bambino non pensa che potrebbe vincere, ma è terrorizzato soprattutto dall’idea della sconfitta e di conseguenza tende a giocare soprattutto per non perdere, perché tendenzialmente pensa sempre che l’avversario sia superiore a lui. La paura di non riuscire e la mancanza di fiducia delle proprie possibilità, rappresentano un fattore di stress molto importante. Molto spesso anche i genitori del bambino che pratica lo sport, possono avere delle responsabilità sul come il figlio vive la realtà sportiva, in quanto trasferiscono su di lui, le proprie motivazioni allo sport. Il genitore troppo interessato al successo del figlio, è quasi sempre colui che si identifica nell’esperienza sportiva dei bambino, al punto che la vittoria o la sconfitta del figlio, diventano la propria vittoria o la propria sconfitta. Questo tipo di genitore non riesce a lasciare libero il bambino di vivere mentalmente l’esperienza sportiva con i significati e le motivazioni tipiche di questa età. Questo è il genitore che pensa che sia importante che il proprio figlio sia più bravo di tutti, che vinca il più possibile e quando ha successo, è come se il successo fosse il suo. Questa situazione a lungo andare, può creare molti problemi; infatti il bambino si trova nella condizione di vivere lo sport come un mezzo di mediazione nel rapporto con il genitore. Il bambino non ha la capacità di capire che il genitore sbaglia comportandosi così; il bambino vede solo la differenza di comportamento nei suoi confronti da parte dei genitore, a seconda che lui vinca o perda la competizione. Quando il bambino vince, riceve gratificazioni e sorrisi, mentre quando perde, il genitore non riesce a nascondere la sua delusione e invece di rincuorarlo, standogli vicino, gli manifesta tutto il suo disappunto. In questo modo il bambino si sente più amato quando vince (e per lui vincere significa conquistare l’amore del genitore) e odiato” quando perde. Tutto ciò crea una situazione di grave tensione, prima e durante la gara e le problematiche di ansia in situazioni di questo tipo sono molto frequenti e anche con il rapporto con l’Istruttore, con l’Allenatore e con i dirigenti della Società Sportiva, possono crearsi distorsioni molto simili a quelle sopra descritte. Quando la Società Sportiva e i dirigenti considerano il bambino un mezzo per conquistare Trofei e vittorie, quando il tecnico considera il bambino solo uno strumento per dimostrare il suo valore, allora nascono i guai e il bambino non è in grado di vivere serenamente la sua esperienza sportiva. Soprattutto nella fascia di età che va dai 6 agli 11 anni, queste problematiche sono molto importanti, perché è in questo periodo che il bambino ricerca, nella sua esperienza sportiva, soprattutto la gratificazione di quella che è definita la motivazione ludica: il gioco.