Chi meglio di coloro che hanno speso la loro vita a servizio dello Sport (nel mio caso il Calcio dal 1971) può dire la sua in merito ad un ruolo così importante e sempre al centro dell’attenzione. Basta pensare ai recenti casi di De Rossi (sostituito in corsa dopo aver ben operato tre i giallorossi), Allegri (non riconfermato dalla Juventus) o Fonseca (in bilico e vittima di insubordinazione) per rendersene conto. Pare giusto pertanto provare a circumnavigare attorno alla galassia “mister” fissando alcune pietre miliari che ne costituiscono le fondamenta. Si parta dal presupposto che la professione dell’allenatore è inconcepibile senza motivazioni elevate, essendo numerose e delicate le esigenze cui egli deve far fronte. Senza un continuo spirito di ricerca e senza il desiderio di ulteriori conoscenze, rapidamente l’allenatore raggiungerà un limite oltre al quale non sarà più in grado di ottenere successi. E’ quindi necessario che i settori tecnico-professionale, psicologico e pedagogico costituiscano per lui un campo di costante aggiornamento e meditazione, dal momento che la sola esperienza spesso non basta più a se stessa. Ogni allenatore, per essere all’altezza del proprio compito ed esercitare la propria funzione in maniera brillante, è vincolato ad un continuo ampliamento ed approfondimento delle sue conoscenze mediante:
lo studio della letteratura scientifica nel campo dello sport
la partecipazione a corsi di aggiornamento e di perfezionamento
la cooperazione a ricerche scientifiche nel campo dello sport
Fondamentalmente sono riconoscibili all’allenatore tre campi di attività:
La relazione tra allenatore ed atleta, che può assumere diverse connotazioni:
– di durezza, aggressività, rigidità, severità, quando l’allenatore si propone come obiettivo il risultato e cerca di ottenerlo in maniera autoritaria attraverso la richiesta del massimo rendimento;
– di socievolezza disponibilità ai rapporti amichevoli, democraticità, quando lo scopo è di salvaguardare l’aspetto socio-emotivo e di organizzazione.
Pedagogia dell’allenamento, che può essere:
– scientifico-sistematica, allorché l’allenatore dà importanza alla ricerca, allo studio ed alla critica per lo sviluppo di una teoria soddisfacente;
– empirico-pratica, quando l’allenatore sottovaluta la teoria e l’innovazione, preferendo la propria esperienza e riducendo l’allenamento a replica abitudinaria.
Guida e preparazione degli atleti alla competizione, secondo un metodo che può essere:
– tattico: l’allenatore prepara i suoi atleti per il conseguimento di un rendimento ottimale in funzione degli avversari che di volta in volta si trova di fronte;
– emotivo: l’allenatore mira sempre al successo, rischiando e stimolando la massima fiducia in sé e negli atleti;
– psicologico: l’allenatore conosce a fondo i suoi atleti e li indirizza secondo le loro capacità.
In verità, non esiste un modello standardizzato né standardizzabile di allenatore ideale. Tutto sommato, la psicologia dello sport si ridurrebbe a ben povera cosa se si limitasse a dettare le regole per essere, genericamente, un buon allenatore.
Il bravo allenatore (bravo, si intende, sotto il profilo psicologico) deve saper essere autoritario o permissivo, paterno o fraterno, ecc.., ecc.., a seconda delle circostanze e soprattutto degli atleti.
Questi, infatti, non possono e non devono essere considerati oggetti o macchine. Essi vanno bensì dapprima riconosciuti come esseri umani, ed in quanto tali diversamente strutturati e motivati, e poi trattati in base alle rispettive strutture e motivazioni.
Lo sforzo maggiore che si richiede all’allenatore è quello di astrarre dal proprio mondo esistenziale di esperienze e di aspirazioni onde riuscire a stabilire un rapporto empatico con ciascuno degli atleti componenti il gruppo sportivo a lui affidato. Una volta entrato nei panni di ciascun atleta, l’allenatore conoscerà le esigenze dei singoli e potrà allora condurre il gruppo nel modo migliore, che si riassume nel rifiuto aprioristico di ogni atteggiamento rigidamente codificato e nell’assumere duttilmente con ciascun atleta (o con ciascun sottogruppo di atleti) l’atteggiamento ad essi più gradito: per esempio autoritario con le persone più fragili, che desiderano essere guidate in tutto e per tutto (letteralmente imboccate come bambini) ed invece comprensivo e permissivo con gli atleti più maturi, che sanno autogestirsi responsabilmente e non tollerano ingerenze. Può accadere che qualcuno protesti se nota dei trattamenti differenziati e che accusi l’allenatore di favoritismi. Ciò non dovrebbe verificarsi: se succede, l’allenatore può dedurne che ancora non ha capito il contestatore o non è riuscito a farsi capire da questi. Il gruppo degli atleti è come una famiglia. Il padre o la madre di due figli sa bene ( o almeno farebbe bene a sapere) che essi sono l’uno diverso dall’altro.
Soddisfarli tutti e due non può significare preferenze per l’uno o per l’altro, mentre, al contrario, significa aver capito le rispettive esigenze e quindi aver adottato il sistema migliore per soddisfarle. Infine, quindi, si può così concludere:
1) Tenendo conto delle diversità e delle differenze di carattere, di umore, degli obiettivi, dei sentimenti e delle motivazioni e di altre particolarità, si deve procedere nell’allenamento con criteri differenziati in funzione del singolo atleta.
2) Gli allenatori devono conoscere le difficoltà e le tendenze dei loro atleti e saper valutare perfettamente ciascuno di essi.
3) Allenatore ed atleta devono essere ben convinti che vi sono sempre degli scogli psicologici da superare.
4) Gli allenatori si devono occupare a fondo dell’indagine psicologica, allo scopo di studiare il carattere ed il contegno dei singoli allievi.