De Paoli da trent’anni lavora nel settore giovanile e ha delineato i cambiamenti avvenuti e spiegato più volte le sue modalità operative.
Figlio d’arte (il papà Virginio ha giocato, tra le altre, con Brescia e Juventus, con la quale ha vinto uno scudetto),dopo l’esperienza come giocatore interrottasi all’età di 16 anni per motivi di salute, ha iniziato subito il suo percorso come allenatore. Architetto di professione – docente in diverse università tra l’altro – ha raccontato spesso come abbia abbinato e coniugato da sempre queste sue due passioni, e l’evoluzione degli aspetti tecnico-tattico e metodologici. Ha cominciato al Brescia, dove ha allenato tutte le categorie fino alla Primavera, per poi passare all’Inter, seguendo i Giovanissimi e conquistando anche lo scudetto di categoria nel 2006, prima di tornare alla casa madre.
Quando nasce il De Paoli allenatore gli è stato chiesto?
«Nel momento in cui ho dovuto abbandonare il calcio giocato, al tempo delle giovanili del Brescia. Avevo tante aspettative, non lo nego, ero figlio di un calciatore famoso allora. A questo è seguìto un anno di distacco completo da questo mondo, finché alcuni ex calciatori amici di mio padre mi hanno coinvolto nuovamente chiedendomi di seguire alcune partite. Volevano farmi riavvicinare all’ambiente. E, tornato in
campo, si è subito riaccesa la scintilla.»
Riusciva anche a studiare, giusto?
«Sì, al Politecnico di Milano e ho iniziato a coniugare la passione calcistica con gli studi di architettura. Questo binomio è continuato e ha caratterizzato tutta la mia vita. La mia formazione mi ha portato anche a scrivere molto di calcio: è stato come essere un cronista che descrive in tempo reale ciò che sta facendo. Col senno di poi, penso di essere sempre stato coerente tra ciò che svolgevo in campo e quello che riportavo su carta in riviste e libri. Penso che alcuni princìpi indicati 15 anni fa siano validi ancora oggi.»
Di quali princìpi si tratta?
«Mi riferisco in primo luogo a concetti generali, che non hanno a che vedere solo col calcio. Nel nostro sport non si può controllare tutto, ma tutto deve essere definito. Questo è un ossimoro molto importante per me. La via giusta è avere delle linee guida e poi lasciare che le cose avvengano liberamente. Le regole e l’imprevedibilità devono coesistere. In questo rapporto, la parola chiave è quella di “spazio di libertà”. Fin dall’inizio ho utilizzato questi concetti, ma in modo inconsapevole. Poi ho cercato di creare coi ragazzi delle interazioni particolari. Mi riferisco a elementi quali gruppi di lavoro, cooperative learning, learning by doing, oggi all’ordine del giorno»
Si è parlato di libertà. Quanto è importante per i giocatori?
«È fondamentale. Ciò non significa fare tutto quello che si vuole, ma farlo nel rispetto di ciò che propone il contesto, sia di gioco sia ambientale. Bisogna cogliere, ad esempio, le culture dei luoghi e delle persone che ci circondano. La libertà passa attraverso un processo sensibile e di conoscenza, oltre che per il rispetto della natura. La mancanza di libertà nel nostro mondo significa mancanza di conoscenza. Ecco perché, quando ho smesso di allenare, ho chiesto di poter formare gli allenatori, in pratica di diventare “allenatore degli allenatori”. Oggi bisogna essere molto preparati dal punto di vista conoscitivo e culturale, sono necessarie un’elasticità e una formazione superiore al passato. Ma se non sei libero non puoi ottenere l’obiettivo.»
Vale a dire…
«Hai presente quando qualcuno ti chiede che cosa desideri? Io risponderei la libertà. E nel calcio deve essere lo stesso: i giocatori, ma anche gli allenatori, devono essere liberi di provare, di esprimere il meglio di loro stessi. Sempre all’interno di alcune linee guida. Li lascio sbagliare, pongo domande senza dare risposte, bisogna arrivare per gradi alle correzioni: infatti, a volte, se correggi immediatamente e sistematicamente, puoi creare dei problemi. Se, invece, lo fai in forma intermittente, cum grano salis, il processo di crescita è maggiore.»
“Spazio e tempo nelle situazioni di gioco” titolo di un suo libro: parliamo di questi due concetti. «Derivano dagli studi di architettura. Ho avuto l’idea che questi due aspetti potessero indurre a comportamenti coordinativi, motori e tecnico-tattici. E ho provato a proporli anche nei miei scritti, cercando di introdurre alcune novità. Spazio e tempo ti permettono di gestire e creare condizioni in allenamento che non sono uguali alla partita, perché non si può ricostruire al 100% tutto. Ma grazie a loro puoi dare vita a setting all’interno del quale mettere training formativi per far sì che il giovane calciatore possa sviluppare al massimo la sua creatività.»
Cos’è cambiato nel calcio?
«Tutto e niente. Il calcio come sport è semplice e non è mutato nella sua sostanza: la passione con la quale i più piccoli frequentano i campi è sempre la stessa. Ciò che è diverso è il mondo esterno. Ad esempio, le persone di 50-60 anni che vi operano devono imparare a confrontarsi con le nuove tecnologie, accettando che le nuove generazioni, su alcuni aspetti, abbiano competenze maggiori. E i ragazzi d’oggi sono sicuramente diversi dal passato. Infatti, si è incrinata la vecchia gerarchia docente-discente: il “tu fai ciò che dico io” non funziona più.»
E per quanto riguarda le nuove generazioni di allenatori?
«Devono essere consapevoli di avere dimestichezza con la tecnologia, con certi linguaggi, ma che occorre una certa esperienza per combinare il tutto. Nella realtà in cui viviamo non si può più prescindere da internet, ad esempio, ma bisogna “governarlo”. Può essere un ottimo strumento per cercare qualche contenuto, ma serve la giusta distanza. Distanza che sembra essersi appiattita anche tra le piccole realtà e i professionisti. Oggi è possibile vedere video sugli allenamenti di qualsiasi squadra, ma poi non si può avere la superbia di riproporre il tutto sul proprio campo di periferia, senza tenere conto delle differenze
che vi sono. Così si pensa solo al proprio ego, si vuole essere “come qualcuno”, “moderni”, ma in realtà si fanno danni.»
Quali sono i suoi princìpi calcistici?
« Faccio una premessa: esistono livelli diversi, che vanno dal generale al particolare. Il primo concerne le strategie, mentre il secondo riguarda il singolo gesto. Sbaglia sia l’allenatore che agisce senza avere ben presente la strategia in quanto manca del livello generale, sia chi si pone nel modo opposto. Le due sfere devono coesistere. Questo è quello che ho sempre cercato di portare sul campo coi ragazzi, da quando sono partito dal Brescia (De Paoli ha allenato tra gli altri Pirlo, Baronio, Diana, Guana… nda). Inoltre, esistono dei pre-requisiti ai tre fattori fondamentali, cioè coordinativo, motorio e tecnico-tattico, ossia: comunicazione, spazio, tempo e percezione. Senza dimenticare la match analysis, i carichi cognitivi ed emotivi. Ora penso siano importanti anche profili nuovi come il web trainer, l’emotional trainer, il tattical
trainer.»
Quanto è cambiata la tecnica in questi anni?
«La differenza maggiore è che molto spesso non è più l’obiettivo principale. Quando parli di tecnica in Italia subito associano il problema alla querelle tra analitico e globale. E non c’è nulla di peggio. Il problema non è legato alla disquisizione in senso stretto, ma al saper fare bene un gesto. È vero che oggi la tecnica non può più essere allenata come trent’anni fa, poiché il contesto è mutato. Le esercitazioni devono tendere ad avere giocatori che in situazione sappiano svolgere bene il gesto specifico.»
Quindi?
«Sono indispensabili allenatori che non guardino solo se si fa bene l’elastico difensivo ad esempio, ma se, in quella situazione, il calciatore ha le posture giuste del corpo, se i piedi sono ben orientati. Manca l’occhio analitico su una situazione globale. Bisogna, inoltre, saper usare i tempi giusti di intervento, non basta fermare l’esercitazione e correggere l’errore, ma è necessario saperlo fare al momento giusto. E ancora, bisogna sempre tenere presente in quale realtà si opera, per capire il livello di partenza e tarare il lavoro nella direzione ottimale.»
È capitato, talvolta, che il ruolo di docente sia andato in contrasto con quello di tecnico? O meglio, che qualche “detrattore” si facesse forza su questo?
«Quando agisco difficilmente penso a quello che possono pensare gli altri. Il mio focus è su quello che sto facendo e alle persone con cui lo condivido. In realtà, porsi questa domanda può portare a condizionarsi, perché rischi di toglierti quello spazio di libertà di cui parlavamo prima. È vero però che questo mio essere “doppio” ha portato, alcune volte, quando mi trovavo in ambito universitario, a essere visto in modo negativo per il mio fare calcio, mentre, al contrario, in ambito calcistico, il mio scrivere e porre delle riflessioni è stato visto come l’essere un teorico o naif.»
Ha sempre avuto a che fare coi genitori: cosa può consigliare?
«Che è fondamentale creare delle condizioni di interazione fra le diverse agenzie educative. Ai genitori ricordo la loro importanza nel processo di crescita dei più giovani, mentre con questi ultimi tendo a sottolineare che il motivo per cui devono venire al campo è quello della passione e non il mito di “diventare qualcuno”.»
In conclusione, alcune considerazioni a ruota libera sulla
distanza che vi è tra il nostro movimento calcistico e quello estero: «I bravi allenatori ci sono, le risorse anche, ma probabilmente non vengono utilizzate al meglio. Quella che deve cambiare è la “politica”, che deve unire il concetto di global a quello di local. Bisogna osservare cosa si fa fuori, ma poi calarsi nella propria realtà. Credo che sia necessaria una linea guida, che però si differenzi per le diverse realtà locali: si
tratta di mantenere spazi di libertà all’interno di un sistema generale. Devi avere persone in grado di gestire la relazione col territorio, le risorse economiche e le realtà politiche. La differenza è che prima facevi solo calcio, ora è necessario interagire anche con chi è esterno, ma è fondamentale in quanto tiene in vita l’intero movimento. Un altro aspetto da sottolineare è l’aggiornamento costante e continuo. Tutti i grandi allenatori – in Italia ne abbiamo molti che ci invidiano tutti – lo sono proprio perché hanno avuto l’umiltà di formarsi in quegli aspetti in cui avevano delle lacune.» Mister che andrebbero sfruttati anche dal punto di vista didattico: «È come avere i calciatori più forti e tenerli… seduti in panchina»
Con i bambini non basta parlare. Il linguaggio che contraddistingue noi adulti, nella maggior parte dei casi, non arriva ai più piccoli, e neanche agli adolescenti. È necessario colpirli, entrargli dentro, accendere la loro fantasia e il loro inconscio. Per questo chi insegna una disciplina sportiva ai giovani deve acquisire competenze affettive e emotive. Tra educatore e giovane calciatore si stabiliscono una serie di comportamenti e una relazione alla base delle quali c’è un mondo inconscio che agisce. Un mondo sotterraneo nel quale le nostre emozioni tendono alla gioia o al malumore senza che ce ne rendiamo conto, influenzando il nostro stato d’animo e il nostro modo di fare. È questo un substrato che accomuna tutti gli esseri umani i quali, sempre a livello inconscio, comunicano tra di loro attraverso canali di energia.Poi noi, in realtà, ci abbiamo messo del nostro”.