Nel 2015 si era svolto all’Hotel Eden di Fanano (in provincia di Modena) un interessante convegno dal titolo “I settori giovanili e la globalizzazione” alla presenza di Renzo Ulivieri, Franco Colomba e Fabrizio Lucchesi.
Si trattò di una interessante serata dedicata al calcio giovanile raccontato da chi viveva ormai da diversi decenni il mondo del pallone sotto diversi punti di vista. L’evento fu collocato nell’ambito del Memorial Seghedoni e fu magistralmente condotto da Simone Monari. Ricordo ancora molto bene l’unanime primo invito rivolto alla giovane platea presente: “Studiate per costruirvi un futuro oltre al calcio– disse Colomba – perché basti pensare che su 300 che hanno iniziato con me alla scuola calcio solo io sono arrivato in Serie A per capire quanto sia difficile arrivare al traguardo“. Ulivieri aggiunse: “L’amore per il calcio è fondamentale ma bisogna giocare solo fino a quando ci si diverte. Quando il divertimento scompare allora è giusto smettere a qualsiasi età“. L’attuale presidente dell’AIA aveva poi dettato qualche linea guida nel lavoro da fare all’interno di un settore giovanile: “Solo la pratica porta a migliorarsi quindi serve tempo da trascorrere con il pallone. Gli allenatori poi hanno un ruolo fondamentale perché spesso sono visti dai ragazzi come vere e proprie guide sostituendo anche i genitori nelle formazione. Dal punto di vista tecnico mi sembra che in Italia siamo carenti nel dribbling“. Dopo aver affidato a Lucchesi il ricordo di una realtà solida come l’Empoli che già 45 anni fa agiva con la stessa mentalità odierna, fu ancora Colomba a parlare della sua esperienza nel calcio indiano: “È una realtà calcisticamente povera che si appoggia alla forza del cricket e tecnicamente il livello non raggiunge la Lega Pro. Credo che investire solo su grandi giocatori a fine carriera non possa bastare e debbano investire nella formazione“.
I giovani nel calcio globalizzato
Paolo Piani e Vanni Sartini del Centro Studi e Ricerche del Settore Tecnico FIGC hanno esplorato a fondo quello che era stato il tema scelto per il dibattito descritto, documentando attraverso un’accurata indagine il numero dei giocatori utilizzati nell’arco di un’intera stagione nei massimi campionati dalle varie squadre dei Paesi europei posti ai vertici calcistici. Per ciascuno di essi, inoltre, è stata operata la distinzione fra giocatori nazionali e stranieri utilizzati, anche in relazione alla loro età.Certamente la globalizzazione ha comportato anche un risvolto negativo, come hanno detto i dati rilevati. Se poi si entra nell’ambito politico/economico ne deriva una fotografia di un calcio sempre più malato, costretto a fare i conti anche con prezzi assurdi ed ingaggi da capogiro di tesserati sempre meno attaccati alla maglia. Complici di questo fenomeno, anche molti Presidenti di società (in Italia 11 squadre professioniste sono in mano a capitali stranieri), che, tra l’altro, si ritrovano a gestirle con freddezza e determinazione considerandole mere aziende. Restano eccezioni alcune squadre che non si sono piegate a queste logiche di mercato, come per esempio l’Osasuna di Pamplona, in Spagna, che resta la squadra in Europa meno esterofila, con circa il 97% di giocatori autoctoni, così come il Nancy in Francia col 92% e i baschi dell’Atlhetico Bilbao col 91%, uno dei tre club spagnoli, insieme al Real Madrid e al Barcellona a non essere mai retrocesso nella seconda categoria. Scelta identitaria di un’intera tifoseria che la ribadì, in un sondaggio che premeva verso la globalizzazione imperante. Che ben vengano allora queste piccole e sparute realtà che in tempi di indotte aperture senza confini e del “politicamente corretto” restano un esempio di identità ed attaccamento alla propria Terra.Questo articolo è partito dalla domanda se la nuova economia e la globalizzazione hanno l’effetto di cambiare il mondo dello sport e del calcio. La risposta è sicuramente affermativa; il mondo dello sport è cambiato ed in maniera radicale.